I Giardini Reali di Venezia si trovano in un contesto tra i più visitati al mondo: non c’è vaporetto che non approdi proprio lì davanti, sulle storiche Fondamenta di San Marco, dove ombreggia un lungo e tormentato filare di pini domestici dalle radici vecchie e nodose, che sembrano giocare con il selciato. Chiome che avvolgono i Giardini come nuvole, proteggendoli dai venti salmastri della Laguna: un luogo unico e inaspettato, quasi sospeso nel tempo, veneziano nella sua essenza più autentica. Pur essendo sotto gli occhi di tutti il giardino conserva un’aura di segretezza e di mistero: fin da subito quei vecchi alberi, quelle folte siepi, il lungo pergolato ormai in rovina sono stati capaci di fare sognare e hanno imposto di avvicinarsi al luogo con una profonda attenzione alla sua storia, ma altresì con lo sguardo già rivolto verso il suo futuro, immediato e non. La sintesi è stata raggiunta attraverso un intervento di tipo estremamente conservativo per quanto riguarda il disegno e le architetture del giardino, volutamente rispettoso dell’evoluzione storica che ha connotato il sito. Intervento che si è fatto invece parzialmente innovativo e sperimentale dal punto di vista botanico e giardiniero.
D’altronde la struttura del giardino, nonostante le molteplici trasformazioni subite nel tempo, da un’originaria impostazione formale a una più tarda di carattere romantico fino al ripristino di un disegno geometrico “all’italiana”, è rimasta pressoché inalterata nelle sue componenti essenziali. Comporta infatti la presenza di un asse longitudinale che divide in due il giardino per quasi tutta la sua lunghezza, sormontato dalla celebre pergola in ghisa e attraversato da un certo numero di assi trasversali, mentre alle estremità da sempre hanno trovato posto due zone a boschetto di carattere informale. Un disegno ormai sedimentato, filologicamente corretto e ancora funzionale, logico e semplicissimo, figlio di un modo cartesiano ed empirico di pensare il giardino, quale quello che caratterizzava l’operato dell’amministrazione asburgica del periodo Biedermeier. Gli interventi strutturali sono stati pertanto ridotti al minimo: qualche riallineamento dei cigli, la demolizione del bunker e di due piccole fontane anch’esse in cemento armato, di un’aiuola rotonda palesemente posticcia e poco altro. Soprattutto sono stati ridefiniti i perimetri delle zone più laterali, quelle a boschetto, andate nel tempo in gran parte perse e ricreate attraverso un disegno estremamente leggero, nel quale la componente vegetale diventa assoluta protagonista rispetto a quella architettonica. Sul lato est si è scelto di implementare i lecci già esistenti, per creare una grande siepe, massiccia, compatta e sempreverde, con un nicchione vegetale nel suo centro, a chiusura prospettica del pergolato. All’estremo opposto, sulla riva a ovest, viene piantato un boschetto di bambù di differenti varietà e altezze (Phyllostachys viridiglaucescens e Phyllostachys metake): il disegno curvilineo e sinuoso disegna un’ansa in qualche modo simmetrica rispetto all’edificio circoscrivendo uno spazio ad anfiteatro. Certamente i bambù sono una presenza “nuova” per il posto, in linea con la curiosità e l’accoglienza botanica che da sempre hanno connotato Venezia e questo giardino in particolare: le foglie di un verde chiaro e brillante e le masse piene ma non rigide donano luce, leggerezza e un certo misterioso fascino alla composizione, oltre a filtrare i volumi dell’edificio raccordandolo armonicamente con il contesto.
Per quanto attiene alla pavimentazione dei percorsi che attraversano il giardino si è optato per il ricorso a superfici in semplice ghiaia di fiume a granulo piccolo e di colore chiaro. Tutti i manufatti già presenti, dalle classiche panchine in ghisa e legno ai lampioni in ghisa lavorata, vengono mantenuti e restaurati.
Dal punto di vista invece delle scelte botaniche gli elenchi storici rinvenuti raccontano di collezioni rare e speciali, spesso vere bizzarrie dell’epoca, simbolo di un giardino che attraverso le sue piante doveva rappresentare l’assoluta eccezionalità del potere che lo deteneva. Piante come mimose e cactus, come fritillarie, crinum e amarilli, che oggi non possono essere riproposte, sia per ragioni contingenti sia soprattutto per scelta ideale: si tratterebbe di una ricostruzione anacronistica, fragile, non in linea con la destinazione a uso pubblico del giardino ed ecologicamente non più sostenibile. Sono state perciò individuate alcune specie di più facile coltivazione e di vigorosa resistenza, oltre che di ben riconosciuta bellezza, a vario titolo legate a quella ricerca e a quel gusto prettamente romantico e ottocentesco che sembra costituire la vera cifra stilistica del luogo. Il rinnovamento ha tenuto conto dell’evoluzione botanica che c’è stata fino a oggi, selezionando varietà e ibridi analoghi per virtù estetiche, ma decisamente preferibili in quanto a esigenze di manutenzione, a periodi di fioritura e a capacità di resistere alle brusche e difficili condizioni climatiche della Laguna. Il progetto di restauro si propone come un emblematico manifesto di sobrietà e di sostenibilità, il tutto però non a scapito né di originalità né di ricercatezza botanica: i Giardini sono stati ripensati per diventare un simbolo di abbondanza e rigoglio, un luogo ricco e lussureggiante, fatto anche di fiori ma soprattutto di foglie e di ombre, di lucentezze e di trasparenze. Giardini vitali, prosperosi ed esuberanti dunque, ma allo stesso tempo facili e morigerati, nei quali piante provenienti da varie parti del mondo diventano una testimonianza botanica di accoglienza e di apertura, in sintonia con quello che è sempre stato lo spirito di Venezia.
Per quanto riguarda nello specifico la scelta delle specie vegetali si segnala innanzitutto il mantenimento delle siepi sempreverdi lungo le Fondamenta. Le masse compatte di allori, di pittosfori, euonymus ed eleagni, sane e ben formate, quasi fossero una duna vegetale, sono l’esito di un lentissimo coacervo botanico e il baluardo di prima linea contro i venti e le loro salsedini. Inoltre con le loro chiome sempreverdi proteggono il giardino dalla vita frenetica del Bacino, custodi di soste ambitissime e di silenzi ormai rari in una città come Venezia. Qua e là vengono piantati qualche lentisco (Pistacia lentiscus) e clerodendro giapponese (Clerodendrum trichotomum) per conferire vivacità e leggerezza alla composizione, alcuni plumbago (Plumbago capensis) da lasciar arrampicare liberamente tra i sempreverdi e piccoli gruppi di osmanti (Osmanthus fragrans) che profumeranno durante l’autunno, mentre nella stretta fascia che delimita l’aiuola lungo il camminamento interno è proposta una bordura di Beschorneria yuccoides e di agapanti.
Lungo la balconata che si affaccia sul rio dei Giardini, in modo da accentuare l’idea di un confine verde che circonda il giardino, proteggendolo e conferendogli unità, vengono collocati dei grandi vasi in terracotta piantati a melograni, fichi, giuggioli, viburni lucidi, Feijoa (Acca sellowiana) e aranci amari, a testimonianza simbolica degli antichi vasi di agrumi che un tempo erano coltivati in quel di Stra e portati ogni anno via acqua fino ai Giardini Reali di Venezia con la bella stagione. Ad intervalli irregolari tra un vaso e l’altro viene piantato del falso gelsomino (Trachelospermum jasminoides), in modo che il fogliame lucido e sempreverde possa tappezzare alcune parti a ghiaia, fuoriuscendo qua e là dalla sagoma dei vasi e riducendo l’impressione di eccessiva mineralità che il largo viale rischia di comunicare. Poiché i due vasi ai lati del ponte levatoio sono collocati in posizione più avanzata rispetto al resto della fila, a causa delle curvature della balaustra, sono creati due grandi “materassi” di falso gelsomino tutt’intorno, per legarli al contesto e sottolinearne la speciale posizione. Analoghi vasi, piantati a Pistacia lentiscus e nespoli del Giappone (Eriobotrya japonica), con le grandi foglie scure e sempreverdi e i profumati fiori color della luna durante l’inverno, scandiscono la manica della Serra verso le Fondamenta, contribuendo a filtrare la vista interna. La grande pergola, che costituisce l’elemento centrale della composizione ed è una presenza tipica nei giardini di matrice asburgica e in tutti quelli di Boemia e di Moravia da cui provenivano i giardinieri dell’Impero, viene rivestita con numerose varietà di Wisteria sinensis e di Wisteria floribunda e, all’intersecarsi della pergola con il viale ortogonale che porta al ponte levatoio e alle estremità della stessa, con folti cespi di Bignonia ricasoliana “Contessa Sara” a fioritura rosa tardo-estiva e autunnale.
Nei quattro parterre centrali, quelli che costeggiano il viale di ingresso, vengono piantate grandi macchie di Agapanthus umbellatus e di imponenti Agapanthus “Queen Mum”, di Farfugium japonicum e di iris della Dalmazia (Iris dalmatica) e di Firenze (Iris florentina), tutti a foglia sempreverde, che racchiudono al loro centro un piccolo boschetto di Tetrapanax papyrifer, con le sue enormi e vellutate foglie tra il verde e il grigio, e alcune piante di rosa. Le rose sono state scelte per ricordare un passato nel quale la loro coltivazione veniva tentata all’interno dei Giardini. D’altronde è superfluo evidenziare come il luogo si riveli poco adatto alle rose, considerate l’umidità e la salinità dell’ambiente, che sono tali da compromettere una crescita sana e felice della pianta. La loro presenza è quindi minima, ma dal forte valore simbolico e la rosa prescelta è la “Général Schablikine”, a fiori doppi e rosa intenso, una delle poche rose a fiorire durante l’inverno, ottenuta dal grande rosaista Nabonnand in quel di Cannes. Tutt’intorno le restanti otto aiuole riprendono il tema di fondo del bordo di agapanti e farfugium, che lascia il posto, man mano che sopraggiungono le prime ombre delle sofore, a gruppi di mirti (Myrtus communis) e di Hydrangea paniculata. A lambire la lunga pergola sono stati previsti dei gruppi di Hydrangea arborescens “Annabelle”, capaci di filtrare con leggerezza il percorso ombreggiato dal resto del giardino, rendendo lo spazio più intimo e suggestivo. Al piede, a riempire i bordi del camminamento, Liriope muscari e Ruscus racemosus creano un soffice e fresco tappeto sempreverde.
Al centro dei suddetti parterre il progetto originario prevedeva un boschetto di Magnolia grandiflora in varietà dal portamento ridotto (M. grandiflora “Little Gem”), estremamente resistente tanto alle temperature rigide quanto all’eccessiva insolazione nonché ai venti lagunari, grazie al suo portamento compatto. Successivamente però, anche a seguito degli abbattimenti di alberi esistenti resi purtroppo necessari dalle precarie condizioni di salute, si è posto un problema di ombre. Problema che non è soltanto di ordine estetico (dilatare la percezione dello spazio e creare piacevoli contrasti di ombra e luce), ma anche funzionale. Si pensi infatti alla migliore fruibilità del giardino da parte del pubblico nei mesi più caldi: la grande pergola già assolveva e assolve di nuovo tale compito, ma il largo viale che si affaccia verso il Museo Correr rimaneva in effetti privo di ripari dalle afe della Laguna, così come d’altronde il viale che corre parallelo verso le Fondamenta di San Marco, tutte zone particolarmente calde perché sottovento. Inoltre la vegetazione d’alto fusto si rivela fondamentale per ospitare le numerose specie di uccelli, migratori e non, che sono uno dei vanti della Laguna e uno dei simboli più preziosi del suo fragile ma ancora ben connotato ecosistema. Si è ritenuto pertanto di sostituire le magnolie con esemplari di Sophora japonica, albero caducifoglie che raggiunge dimensioni anche notevoli, con chiome aperte e leggere, ideali per gli obbiettivi perseguiti. La scelta di tale specie segue un criterio filologico, essendone già presenti nei Giardini vetusti esemplari. In questo modo è stato possibile ottenere una componente arborea omogenea, di notevole impatto sia per il fogliame chiaro e leggero, e le accese colorazioni autunnali, sia per le estive e copiose fioriture bianche, perfettamente integrata con il contesto e con la sua storia a testimonianza del ricco passato botanico del giardino e della sua apertura verso l’Oriente. Nelle aiuole più laterali altri esemplari di Clerodendrum trichotomum completano la composizione.
Per quanto riguarda ancora l’alto fusto, nel corso dell’esecuzione del cantiere e man mano che i nuovi spazi s’andavano profilando nella loro realtà definitiva, sono stati aggiunti al progetto originario due
canfore (Cinnamomum camphora) e due Pterocarya fraxinifolia. Le canfore, grandi alberi a foglia sempreverde, sono collocate in prossimità del retro dell’edificio che ospita la Compagnia della Vela, in modo da chiuderne la vista e da rinfoltire la quinta verde un po’ diradata costituita dalla vecchia maestosa sofora esistente e da alcuni esemplari vetusti di leccio. Infine le Pterocarya fraxinifolia, albero originario del Caucaso appartenente alla famiglia delle Juglandaceae, vengono piantate in un parterre per il quale non erano state previste sofore, un piacevole diversivo nell’altrimenti omogenea componente d’alto fusto del giardino, senza però andare in disaccordo con le sofore e anzi essendo anch’esso emblema di quel giardino eclettico ottocentesco del quale i Giardini Reali di Venezia sono un testimone evidente e importante, almeno per quanto riguarda la componente vegetale. La Pterocarya è pianta estremamente vigorosa, con belle foglie lucide e imparipennate caduche, dalle accese tinte autunnali, e fioriture tardo primaverili di un verde acido e luminoso. Completa l’insieme un diffuso e leggero intervento di “naturalizzazione” di piante bulbose (varietà di Narcissus e Tulipa in particolare).
Non sono volutamente previste aree a prato e, all’interno di ciascuna aiuola, sono stati ridotti al minimo gli spazi non piantati, con il duplice obbiettivo di conferire ricchezza al giardino e di ridurre il più possibile le operazioni di diserbo. È nelle intenzioni di tutti noi che ci abbiamo lavorato che i rinati Giardini Reali di Venezia siano all’altezza non soltanto della loro storia, ma anche delle molteplici sfide che il tempo presente e tanto più quello futuro ci pongono, affinché diventino davvero un esempio virtuoso di come in Italia pubblico e privato possano e debbano collaborare, a tutela del nostro immenso e preziosissimo patrimonio artistico e naturalistico e a beneficio della collettività tutta.